Milano, 10 novembre 2015 - 07:33

A due anni le app, a dieci YouTuber
La corsa digitale dei figli «mutanti»

Le ricerche rivelano: l’uso delle applicazioni studiate per i più piccoli stimola un neurotrasmettitore che agisce sulla funzione del piacere. Gli effetti? Guai a togliergli il tablet dalle mani

di Paolo Ottolina

(Ansa) (Ansa)
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A due anni sanno usare perfettamente la loro app preferita sullo smartphone di mamma (Guarda il grafico interattivo). A quattro impostano e fanno partire una playlist di «Masha e Orso». A sette umiliano il papà in una sfida di calcio simulato a Fifa. A dieci passano la giornata a vedere i video dello «youtuber» del cuore o a postare foto su Instagram. Che cos’è successo ai nostri figli? Se fossimo in un fumetto della Marvel li chiameremmo «mutanti» e inizieremmo a preoccuparci. Essendo nel mondo vero, c’è chi scuote la testa e biascica qualcosa sul «Quand’eravamo giovani noi» e su queste «diavolerie moderne». C’è chi abbozza e sorride benevolo. E chi finisce per vantare con gli amici le naturali inclinazioni tecnologiche di figli e nipoti. «E vedessi cosa fa il mio con il tablet in mano...»: se non avete pronunciato voi stessi questa frase probabilmente l’avete sentita in bocca a qualche conoscente. In verità non c’è da stupirsi delle capacità degli under 12 alle prese con la tecnologia. Qualcuno ha iniziato a definire con il termine «mobile-born» la generazione dei giovanissimi. Ovvero coloro che sono nati insieme ai dispositivi tascabili: l’iPhone — l’oggetto capace di portare al grande pubblico concetti quali touchscreen, app e smartphone — si avvia a compiere 9 anni. Fratelli minori dei «nativi digitali», che invece si avvicinano alla maggiore età. Le ricerche sull’uso dei gadget digitali da parte di questo target possono lasciare sgomenti. Soprattutto se relative ai piccolissimi. Oltre un terzo dei bimbi sotto l’anno di età ha già utilizzato uno schermo touch, facendo scorrere pagine con un dito. Il 15% di loro ha usato un’app e il 12% un videogioco. Arrivati ai 4 anni di età, solo due bambini su cento non hanno mai interagito con un display a tocco.

Generazione «mobile-born»

Dati che arrivano dagli Stati Uniti e che hanno sorpreso gli stessi ricercatori dell’Einstein Medical Center di Filadelfia, autori dello studio: «Non ci aspettavamo che i bambini utilizzassero questi strumenti già dai 6 mesi. Alcuni stavano attaccati allo schermo anche per 30 minuti». Numeri d’oltreoceano ma la realtà nel nostro Paese probabilmente non è molto diversa: lo smartphone (o il tablet) trasformato in baby sitter digitale è un trend mondiale. Una volta che il piccolo ha messo le mani sul dispositivo farglielo mollare è complicato. Capricci e proteste anche violente sono all’ordine del giorno. Questione di chimica: studi dimostrano come l’uso delle app pensate per i più giovani stimoli il rilascio di dopamina, un neurotrasmettitore che ha diverse funzioni, tra cui quelle associate al piacere. Un effetto non dissimile da quello che negli adulti producono il sesso, il buon cibo o le droghe. Prima dell’avvento delle interfacce touch, l’approccio agli strumenti elettronici doveva essere mediato dagli adulti: usare un mouse, una tastiera o un joypad è un’attività pressoché off limits nell’età prescolare, per motivi di manualità e di alfabetizzazione. Smartphone e tablet, e prima ancora la Nintendo Wii hanno stabilito nuovi paradigmi di accesso, con un’interazione più naturale, intuitiva anche per chi non sa leggere. E in più c’è l’effetto imitazione: come può un figlio non essere interessato a quello strano oggetto che mamma e papà hanno in mano e toccano per decine di minuti al giorno? Una calamita di attenzione che gli adulti, sempre più spesso, sono ben contenti di concedere (magari in versione tablet da poche decine di euro) alla prole. Una perfetta arma di distrazione di massa. Il 73% dei genitori piazza il pupo davanti al tablet quando è alle prese con le faccende domestiche, il 65% per calmarlo, il 60% mentre fa commissioni e quasi un terzo per farlo addormentare.

Le ninne nanne dannose

Senza alzare inutilmente l’asticella dell’allarme, non possiamo non ricordare come alcuni esperti abbiano individuato effetti collaterali dell’uso eccessivo delle nuove tecnologie sui bambini. Si va da problemi di socializzazione a disturbi dell’attenzione, fino al sonno perturbato legato all’esposizione alla cosiddetta luce blu, quella emessa dagli schermi Lcd. Quindi non solo tablet, ma anche tv: utilizzarli come ninne nanne dopocena è assolutamente sconsigliato. Qualche addetto ai lavori ha provato anche a stabilire norme minime. Lo psichiatra infantile francese Serge Tisseron ha proposto la regola del «3-6-9-12», rilanciata dall’Associazione francese di pediatria. Pochissimi o (meglio) niente schermi fino ai 3 anni. Niente videogame portatili fino ai 6 anni. Niente Internet fino ai 9. Sulla rete da soli a partire dai 12 anni e comunque con limiti chiari di orario e controllo parentale. L’American Academy of Pediatric si limita a sconsigliare tv, computer e telefoni fino ai 2 anni. Entrando nell’età pre-puberale e poi nell’adolescenza, si aggiungono altri fattori di rischio. Cyberbullismo, violenza di immagini e commenti, incontri a rischio con adulti malintenzionati sono le paure percepite dagli stessi teenager italiani tra gli 11 e i 17 anni, secondo una recente indagine di Save The Children. Tutto male dunque? Dobbiamo costruire un cordone di sicurezza tecnologico intorno ai nostri bambini e ragazzi? La messa al bando non è realistica ma nemmeno auspicabile.

Il tablet meglio della tv

Se alcune ricerche hanno evidenziato le criticità dell’uso precoce dei dispositivi mobili, altri studi hanno individuato aspetti positivi. L’alternativa al tablet non è il ritorno ai balocchi da libro Cuore. Ma piuttosto la tv, la Grande Pacificatrice delle generazioni cresciute negli anni Settanta, Ottanta e Novanta. E secondo Daniel Anderson, docente di psicologia della University of Massachusetts che da decenni si occupa degli effetti della tv sui minori, dare in mano un tablet a un bambino è meglio. Quando guarda programma in tv, il bimbo tende a distogliere lo sguardo anche 150 volte in un’ora. iPad e soci invece, grazie all’interattività, garantiscono una concentrazione molto maggiore: una peculiarità che rende questi strumenti efficaci ai fini dell’apprendimento. L’utilizzo di app specifiche per il linguaggio ha generato miglioramenti nel vocabolario di bambini dai 4 ai 7 anni, in percentuali tra il 17% e il 27%. Per altro, anche senza addentrarci nel tema spinoso dell’utilità delle app «educative» (contestata da altri studi), basta sfogliare gli App Store per scoprire gioielli di inventiva, disegno e creatività. App come Little Fox Music Box, Petting Zoo, Toca Hair Me, Il Libro Bianco, Loopimal (giusto per citarne alcune) non hanno nulla da invidiare ai migliori libri per l’infanzia. E pari dignità. Inoltre il digitale, tablet in testa, si è già dimostrato un valido aiuto in caso di dislessia, disabilità e autismo. Come ricorda il filosofo dei nuovi media Peter Lunefeld «le tecnologie non sono mai neutrali», così come non lo sono le persone che le inventano e le usano. «Però possono essere indirizzate, attraverso l’insegnamento e la pedagogia». L’approccio corretto alle «diavolerie elettroniche» è la consapevolezza degli adulti. Su un punto tutti gli esperti sono concordi: mai abbandonare a lungo i figli davanti a un touchscreen. La sorveglianza deve essere sempre attiva e responsabile.

Il movimento coding

Perché lo sia non può non esserci consapevolezza. Consapevolezza è una delle parole chiave dietro al movimento del coding, l’approccio pedagogico all’informatica nato negli ultimi anni che sta conquistando anche il nostro Paese. Coding è una parola inglese che si può tradurre con programmazione (informatica), ma che si tende a lasciare in originale. Non per sudditanza o per provincialismo: l’inglese per una volta è utile a evitare confusione con la parola «programmazione», che in italiano fa pensare piuttosto ad agende della settimana o a pianificazioni ministeriali. E aiuta anche a segnare una discontinuità con la «vecchia» informatica dei decenni scorsi, fatta spesso di righe e righe di istruzioni. Il coding prevede un approccio ludico e pratico, grazie a strumenti visivi adatti persino ai bambini che ancora non sanno leggere. Il più diffuso è Scratch, un sistema «a blocchi» (come i mattoncini per le costruzioni) ideato al Mit di Boston. Si fa coding non per creare future schiere di informatici (che pure non farebbero male), ma per imparare a pensare con metodo. L’obiettivo è lo sviluppo di competenze trasversali, non solo logico-matematiche. La collaborazione con i compagni, ad esempio è fondamentale, e le abilità sociali e relazionali prevalgono su quelle strettamente tecniche. E le bambine sono della partita tanto quanto i bambini: programmare non è cosa esclusivamente da maschi. «Non comprare semplicemente un nuovo videogame: crealo. Non scaricare l’ultima app: progettala. Non giocare soltanto con il telefonino: programmalo»: frasi di Barack Obama del 2013, diventate slogan del movimento. Ci dicono una cosa fondamentale. Vostro figlio di 4 anni non è un genio solo perché sa smanettare sul tablet con la naturalezza con cui voi vi soffiate il naso. Mi spiace, ma non lo è. Fa parte delle doti fisiologiche della sua generazione. Però magari le stimmate del genio le ha davvero. Regalategli un approccio critico e consapevole a questi mezzi e magari lo scoprirete.

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