Milano, 15 dicembre 2015 - 14:21

Ecco perché andiamo al cinema
(per piangere o spaventarci)

La spinta fondamentale è il desiderio di provare tensioni di cui si ha timore
nella vita reale. Ciò di cui lo spettatore ha paura è in definitiva la paura stessa

di Danilo di Diodoro

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Si va al cinema per sognare, per ridere, ma anche per provare la tensione generata dalla suspence e dallo spavento e perfino per piangere. La sala cinematografica è ideale per le lacrime, perché è buia, le persone sono rivolte verso le schermo e non possono parlare o guardarsi negli occhi. Può sembrare strano che si paghi un biglietto per piangere, ma lo spettatore cerca proprio emozioni intense, comprese quelle tristi.

Una perfetta realtà virtuale

Secondo Frederick Luis Aldama, dell’Ohio State University, esperto di psicologia cognitiva dell’arte: «L’emozione è un ingrediente essenziale della narrativa e se non sperimentiamo emozioni siamo meno coinvolti nella storia, o addirittura la respingiamo». Ma come avviene questa immersione nell’affettività durante la proiezione di un film? «La comprensione delle emozioni del personaggio di un film è basata sulla nostra capacità di intuire quelle delle persone reali», dice Jonathan Frome, docente dell’University of Texas di Dallas e autore di un articolo sulla psicologia del cinema. «Di conseguenza reagiamo alla avventure dei personaggi del film come se stessimo vedendo eventi simili non sullo schermo ma nella vita reale». Nella maggioranza dei casi le lacrime sono generate da situazioni nelle quali il personaggio viene a trovarsi in una situazione dalla quale non ha possibilità di uscire o in cui non può ricevere aiuto. «Anche lo spettatore è indifeso: non può intervenire nella situazione indesiderabile rappresentata, e questo è il meccanismo che scatena il pianto» dice ancora Frome. Le lacrime possono però arrivare anche quando va in scena un’emozione fortemente positiva, come il superamento di uno stato di crisi ottenuto attraverso una dura lotta. In questi casi, come spiega sempre il ricercatore texano, è sufficiente la stessa intensità dell’emozione a generare il pianto.

Per chi si vergogna

Pianto di tristezza o di gioia che sia, gli adulti cercano di frenarsi, anche se protetti dal buio della sala. Piangere al cinema, se si viene “scoperti”, può apparire poco da adulti e soprattutto poco maschile. Allora si mettono in campo tecniche di smorzamento delle emozioni, come il “reinquadramento cognitivo”, basato sul tentativo di convincersi, razionalmente, che si sta assistendo solo a una finzione, oppure, se il tentativo di repressione dell’emozione fallisce, si prova a contrastare l’espressione fisica del pianto stesso, ammiccando, inghiottendo ripetutamente, strofinandosi gli occhi.

Paura della paura

Oltre alle emozioni legate al pianto ci sono quelle che ruotano attorno alla paura. I film dell’orrore, di suspence, sono fortemente attrattivi. Si vuole provare al cinema proprio quella tensione interiore che nella vita reale si vorrebbe evitare. «Ma paura di che?», si chiede Julian Hanich, dell’Università di Groningen, in Olanda, autore di un saggio in proposito: «Noi ci aspettiamo che una scena spaventosa finisca con un momento di orrore potenzialmente travolgente». Quando l’orrore arriva, la tensione interiore paradossalmente si allenta. Quindi ciò di cui lo spettatore ha paura è, alla fin fine, la paura stessa. E infatti, il meccanismo della paura funziona anche quando si rivede una scena spaventosa di cui già si conosce il finale. Secondo quanto riportato da Hanich, la paura anticipatoria può essere addirittura superiore a quella che si prova quando non si sa come “andrà a finire” perché non c’è la speranza che il momento di tensione possa risolversi positivamente.

Come il cervello reagisce

Alcuni ricercatori si sono anche interrogati sui meccanismi neurobiologici attraverso i quali i film attivano le emozioni dello spettatore. Studi realizzati con l’impiego della Risonanza Magnetica Funzionale hanno esplorato la risposta di diverse aree cerebrali alle scene, ai suoni e alle parole dei film. Una delle pellicole utilizzate come test è stato “Il buono, il brutto, il cattivo” di Sergio Leone. Cinque volontari sono stati invitati a vedere 30 minuti di questo film mentre erano dentro uno scanner della Risonanza Magnetica e l’esperimento ha consentito di fare alcune scoperte interessanti. «L’attività cerebrale è risultata simile per tutti gli spettatori», dice Uri Hasson del Center for Neural Science and Department of Psychology della New York University che assieme ad alcuni collaboratori ha pubblicato un articolo in merito sulla rivista Projections: «Circa il 45 per cento della neocorteccia ha mostrato una correlazione tra i soggetti statisticamente significativa». Questo significa che il film ha attivato in persone differenti gran parte della stessa zona di corteccia cerebrale, comprendente aree quali quelle visive della zona occipitale, quelle uditive, quelle critiche per l’attività del linguaggio, come l’area di Wernicke. Forse ancora più sorprendente la scoperta che molto simili sono anche i movimenti oculari: «I soggetti erano liberi di guardare dove volevano dal momento che non avevano avuto istruzioni, a parte il fatto di stare fermi nello scanner della Risonanza e guardare il film, ma per molte scene tutti i soggetti fissavano la stessa parte dello schermo allo stesso tempo», dicono ancora i ricercatori americani. È il risultato di una manipolazione della vista e del reclutamento di aree cerebrali, tipica della cinema e delle relative tecniche, come il montaggio, la durata delle scene, le luci, la scelta del primo piano o di un campo lungo. Infatti, questa uniformità di risposta da parte degli spettatori non si è riprodotta quando sono stati esposti a una ripresa “piatta” di un concerto, senza primi piani o panoramiche, luci e montaggio.

In sala è molto più facile emozionarsi seduti a destra

Quando può, lo spettatore preferisce vedere un film sedendosi nella parte destra della sala, tenendo lo schermo un po’ a sinistra. Così riceve al meglio l’informazione visuo-spaziale e apprezza meglio il contenuto emotivo del film. Lo affermano alcune ricercatrici canadesi in uno studio sulla rivista Laterality . Dietro questa scelta inconsapevole c’è un motivo neurofisiologico: la superiore abilità dell’emisfero cerebrale destro nel processare i contenuti emotivi. Da tenere presente che, per un incrocio delle fibre nervose, il campo visivo sinistro si proietta verso l’emisfero destro. La preferenza dei sedili nella parte destra della sala è stata verificata sia per le commedie, sia per i film drammatici e vale anche per i mancini. Una conferma viene poi dalle aule universitarie: gli studenti più brillanti, anche loro inconsapevolmente, tendono a posizionarsi in avanti, leggermente a destra.

Il film come rappresentazione psicoanalitica delle fasi della vita

Il cinema evoca la psicoanalisi attraverso l’identificazione con la vita dei personaggi. Del resto, come dice Salman Akhtar in un articolo sull’American Journal of Psychoanalysis, «lo sviluppo continua fino all’ultimo momento della vita». In “Gente comune”, di Robert Redford, come ricorda lo psicoanalista Frederick Miller, il protagonista impara ad aprirsi alle relazioni romantiche; in “A piedi nudi nel parco”, di Gene Sacks, la crescita personale è offerta dal matrimonio, in “Mangia, prega, ama”, di Ryan Murphy, da una separazione. «La matrice originaria del nostro modo di essere, con possibili radici nell’ereditarietà, è in parte determinata dalla qualità delle prime relazioni», dice Giuseppe Filidoro, della Società Italiana di Psicoanalisi. «Correlata a questo aspetto è la tendenza a ripetere schemi interattivi originari entrati nel proprio modo di essere. Ma nella vita viviamo nuove esperienze, facciamo incontri e c’è sempre la possibilità di cambiare. E la psicanalisi stessa tende a favorire i cambiamenti proponendo una sorta di nuova esperienza».

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