Commenti

La promessa ai figli del professor Ferrari e il male italiano da curare

  • Abbonati
  • Accedi
MEMORANDUM

La promessa ai figli del professor Ferrari e il male italiano da curare

Villa d’Este a Cernobbio. (LaPresse)
Villa d’Este a Cernobbio. (LaPresse)

Mauro Ferrari mi guarda come se mi conoscesse da una vita, ha appena finito il suo intervento al forum Ambrosetti di Cernobbio («chiedo scusa se sbaglierò qualche congiuntivo dopo quarant’anni d’America») e mi ha colpito la passione. Si sente quando scandisce le parole e alza gli occhi al cielo: «Ho promesso ai miei figli che il cancro non sarà più la condanna a morte per nessuno». Scambiamo qualche battuta e vedo che scuote la testa: «Non penso più di fare un’azienda in Italia, come dice mia moglie continuo a venire ogni mese qui, a casa mia, per gli incontri al Bar Sport, una volta vado in un liceo, un’altra in una chiesa o in una sinagoga, mi fa piacere parlare ai giovani in un’aula di scuola o in un oratorio, raccontare la mia vita, ma non penso più di scommettere su un’impresa di talenti italiani perché si deve combattere troppo con la burocrazia, è tutto sempre così difficile».

Ferrari è presidente e amministratore delegato di Methodist hospital e direttore dell’Istituto di accademia di medicina, a Houston, qualcosa che vale 4 miliardi di dollari e 22mila dipendenti, è partito quarant’anni fa da Udine con un contratto da matematico a Berkeley e la passione per le nanotecnologie e la medicina. Decidiamo di fare quattro passi insieme, nei giardini di Villa d’Este, e scopro una persona garbata che si muove con le sue scarpette nere texane e dice cose terribili a voce bassa, alternando rabbia a speranza. Butta lì, tutto d’un fiato: «Ogni anno che passa è molto simile a quello che lo ha preceduto, il Paese sta implodendo, la sua impostazione strategica relativa, rispetto al resto del mondo, è diventata minore, i Paesi emergenti con tutti i loro rallentamenti hanno un percepito migliore. Non capisco come sia possibile, mi arrabbio da morire, e continuo a chiedermi perché può accadere che un Paese come l’Italia che ha una creatività senza pari al mondo, che ha uno dei migliori servizi sanitari, giovani di talento usciti dalle università italiane che si affermano ovunque, aziende di valore, non riesca poi a far crescere davvero l’industria della ricerca e dell’innovazione. Perché non si capisce che questa, solo questa, è la priorità?». Obietto: non è vero che in Italia non si fanno ricerca e innovazione e, soprattutto, nella farmaceutica e nella chimica non mancano le eccellenze e, poi, comincia finalmente a essere noto ai più che molta dell’innovazione e della ricerca fatte non compaiono nei bilanci perché, in assenza di un vero credito di imposta, si preferisce presentarle come un costo, ma in realtà sono una spesa peraltro buona. Aggiungo: il nostro viaggio nell’Italia che innova lo dimostra in modo empirico e i dati delle esportazioni lo confermano autorevolmente.

Ferrari replica, quasi di scatto, e per la prima volta alza la voce: «Diciamo la verità, c’è un problema di sensibilità (che cosa si aspetta a fare un vero credito d’imposta, come dici tu?) ma ancora prima non siamo capaci di dotarci di un’organizzazione traslazionale...». Lo fermo: che cosa? Scusa, ma che cosa vuol dire “traslazionale”? Un largo sorriso e la risposta inequivoca: «Manca l’infrastruttura che permette all’idea di diventare un’impresa e di vederla crescere. Perché nel mio laboratorio sono nate tante aziende, nel campo delle biotecnologie, e una di queste è quotata al Nasdaq e vale un miliardo di dollari mentre qui è tutto difficile? Questo è il cambiamento di cui l’Italia ha bisogno, c’è un grande capitale, più diffuso di quello che si pensi, che attende solo di essere valorizzato, bisogna crederci e bisogna adoperarsi con lo stesso spirito, la stessa forza, e la stessa coerenza di comportamenti dell’Italia degli anni Cinquanta...». Ferrari ha toccato il tasto giusto, non lo dice ma pensa a Giulio Natta e al polipropilene isotattico, erano i tempi in cui grande azienda, grande università, talento giovanile erano un tutt’uno e, con questo spirito, tutti insieme si inventarono la plastica e posero le basi del miracolo economico. Siamo in tempo per recuperare e curare il “male” italiano. La capitale economica del Paese, Milano, raccolga per prima la sfida, lo dimostri alla voce fatti: la partita, tutta da giocare, di fare della città dell’innovazione, nell’area dell’Expo, un network che metta in rete le eccellenze del Paese è decisiva; la finanza che in questo caso è l’infrastruttura più rilevante, faccia anch’essa la sua parte, scommetta sui talenti italiani, le nostre università e le nostre aziende, dimostri di essere un’infrastruttura all’altezza del laboratorio di Houston e, perché no, di essere capace di incubare il futuro. Una volta ci siamo riusciti, nulla ci deve impedire di farcela una seconda volta.

© Riproduzione riservata