I DUE MONDI DELLE STARTUP

Italia e Usa a confronto

di DANIELE VULPI

Una rivoluzione ci salverà

di FEDERICO RAMPINI

Creare il lavoro perduto

di RICCARDO LUNA
USA/L'ANALISI

Dai trentenni la rivoluzione che ci salverà


dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
NEW YORK- Ogni anno nel mese di marzo cerco di tornare a San Francisco (dove ho abitato per quattro anni) per un evento che organizza la fondazione Mind the Bridge, dedicato alle startup. Lo considero una cura anti-depressiva per chi ha perso fiducia nel nostro Paese: in quella gara-esposizione tra "startupper" italiani si vedono tanti inventori, innovatori, imprenditori che hanno da poco varcato la soglia dei vent'anni, e con la sola forza delle loro idee attirano l'interesse dei più esperti venture capitalist californiani.

Le startup sono imprese giovani "nella testa", nella loro cultura, anche se non necessariamente nell'età anagrafica dei fondatori. Innovative, generalmente con alto contenuto di tecnologie avanzate, ma non destinate a rimanere piccole o di nicchia, tutt'altro. Le startup per la cultura dei loro fondatori sono lontane mille miglia dal nanismo di certe piccole imprese e "partite Iva" nostrane, che nella dimensione ridotta hanno una vocazione, spesso per motivi inconfessabili (più libertà di sfruttamento e licenziamento; più facilità a sfuggire agli schermi radar del fisco). Furono startup Hewlett-Packard, Microsoft, Apple, Google, Facebook. Il termine startup per gli italiani era ancora un neologismo esotico quando mi trasferii a vivere a San Francisco 13 anni fa; oggi è nell'uso corrente e questo universo merita la massima attenzione. Questo non è un fenomeno di punta riservato ad altri (la California), non è un dinamismo d'eccezione destinato a pochi eletti. Ecco un dato su cui riflettere, nell'interesse dei giovani: negli Stati Uniti già prima della grande crisi, tra il 1997 e il 2005, le aziende pre-esistenti hanno distrutto più posti di lavoro di quanti ne abbiano creati (saldo netto, meno un milione di posti); tutta l'occupazione nuova è stata generata dalle aziende neonate: più tre milioni di assunzioni.

Gli imprenditori startupper quando è possibile tendono anche ad aggregarsi fra loro, non soltanto per scopi imprenditoriali ma anche socialmente, nel tempo libero. Gli serve per organizzare una sorta di controffensiva psicologica. Hanno bisogno di frequentare i propri simili, non solo per scambiarsi idee e collaborare su progetti specifici, ma anche perché ritrovandosi assieme si "contagiano" in un'atmosfera di fiducia, ottimismo, tensione verso il successo. In Italia fa notizia soprattutto l'agonia interminabile di una classe dirigente fallimentare: e non mi riferisco solo alle vicende della politica ma anche a quelle dell'economia. Il capitalismo italiano che fa notizia e ha visibilità sui media è ancora dominato da elementi dinastici, oligarchici, sempre più decadenti, provinciali, avvitati in una logica di rendita parassitaria, di difesa di vecchie posizioni. Casi come la Telecom o l'Alitalia sono semplicemente la "sanzione" di un capitalismo che dopo avere estratto ogni rendita si ritira e lascia avanzare gruppi stranieri. La salvezza verrà da una rivoluzione, verrà dai trentenni delle startup. Sono già in mezzo a noi, è ora che siano loro a fare notizia.

L'economia americana sta generando 200.000 nuovi posti di lavoro al mese, il tasso di disoccupazione scende con regolarità da tre anni, e tuttavia perfino questa "macchina da guerra" ha un problema: il dualismo del mercato del lavoro. Una parte troppo piccola dei nuovi posti che si creano qui in America, sono altamente qualificati e ben remunerati. Un'altra parte, ancora troppo vasta, sono invece lavori sottopagati. Perciò anche gli Stati Uniti si pongono il problema di avere nel loro sistema "più Silicon Valley e meno fast-food", perché le giovani generazioni possano tornare ad aspirare a una mobilità sociale in ascesa. E sì che gli Stati Uniti, una Silicon Valley ce l'hanno già...

Guardando alla creazione di nuovi posti di lavoro sull'arco di diversi decenni, l'America ha questa caratteristica: l'occupazione qualificata è stata generata soprattutto da aziende nuove, che non esistevano neppure trenta o quarant'anni fa, mentre i vecchi nomi del capitalismo Usa hanno licenziato più di quanto assumessero. Il modello di un'economia trainata dall'innovazione, dopo la Silicon Valley californiana è stato replicato altrove: per esempio nella città di Austin (Texas) e attorno al polo universitario di Boston.

Un altro caso interessante è la città di Seattle. Sulla punta settentrionale della West Coast, nello Stato di Washington, Seattle è la più stretta rivale di San Francisco nella sua creatività imprenditoriale e tecnologica. Seattle storicamente si sviluppò attorno al suo porto sul Pacifico. Ebbe poi un aiuto dalle commesse pubbliche militari nella seconda guerra mondiale, donde l'insediamento della Boeing e una vocazione nell'aerospaziale. Ma negli ultimi trent'anni i nomi-simbolo di Seattle sono altri: nell'ordine temporale di nascita si chiamano Microsoft, Amazon, Starbucks. In tre settori assai diversi (un colosso del software, il numero uno del commercio online, la più grande catena mondiale di bar), queste aziende sono dei simboli d'innovazione, o perché fondate su tecnologie nuove o perché applicano la cultura dell'innovazione tecnologica ad attività di servizio tradizionali, "rivoluzionandole" in profondità.

Di recente ho approfondito i temi dell'innovazione con un economista italiano trapiantato proprio sulla West Coast. Lui si chiama Enrico Moretti, insegna all'università di Berkeley, e un suo libro sulla "Nuova geografia del lavoro" (edito in Italia da Mondadori) è uscito prima nell'edizione Usa ed è diventato un'opera di riferimento nel dibattito americano. Con Moretti ho cercato di mettere a fuoco gli ingredienti cruciali che trasformano una città in un polo dell'innovazione. È incoraggiante osservare che tra gli esperimenti di maggiore successo, non tutti sono americani. Ci sono città europee che eccellono nella loro versione di una Silicon Valley: Londra, Stoccolma, Zurigo, Monaco di Baviera. Tra i fattori decisivi c'è la capacità di attirare immigrati ad alta scolarità.

Tutte le metropoli che costruiscono delle economie locali trainate dall'innovazione, finiscono per elaborare una variante del "melting pot" multietnico dove io ho vissuto a San Francisco e dove vivo oggi a New York. Viceversa, è molto difficile creare una cultura dell'innovazione permanente in situazioni poco accoglienti per l'immigrazione qualificata (non a caso, in Asia né Tokyo né Shanghai sono riuscite ancora a riprodurre il modello Silicon Valley, mentre ci sta riuscendo in parte Singapore che è multietnica). Un altro fattore decisivo è l'organizzazione delle università. Qui il messaggio di Moretti - che se ne intende avendo fatto il docente sia in Italia sia in America - è positivo per noi: l'università italiana è meno conservatrice di quanto si crede, ci sono esempi come la Bocconi dove ormai il reclutamento e le promozioni avvengono su basi meritocratiche identiche all'America.

Quel che sembra incoraggiante, è "l'irreversibilità" del cambiamento: una volta che un dipartimento universitario italiano comincia ad assumere i migliori su un mercato del lavoro internazionale, non torna più indietro perché le vecchie baronìe e le logiche dei clan, delle raccomandazioni, dei nepotismi, diventano improponibili. Un "segno più" da non sottovalutare: la qualità della vita nel nostro Paese è un'attrattiva per quegli "immigrati di talento" che servono a costruire un'economia dell'innovazione.



USA/SILICON VALLEY

La vera faccia del divario digitale


di PAOLO PONTONIERE
SAN FRANCISCO - La vera faccia del divario digitale? Un gruppo di senza casa e attivisti politici che il mese scorso picchettavano la sede di Twitter a San Francisco mentre a Wall Street i fondatori della mega startup lanciavano una Ipo (offerta pubblica iniziale) multimiliardaria. Il divario tra i fortunati del boom delle startup e quelli che da questo boom invece finiscono con essere travolti non poteva essere più stridente. Tanto che la super agenzia giornalistica Reuters, vedendovi l'espressione di un malessere sociale con radici profonde, s'è sentita in dovere di riportare la protesta:

"La Ipo di Twitter mette alla luce gradi frizioni economiche a San Francisco" titolava l'agenzia, notando che il successo di San Francisco come nuovo centro di potere di Silicon Valley contribuisce a spingere le sue contraddizioni sociali verso il punto di non ritorno. Ma non si tratta solo di un discorso economico, è un vero e proprio scontro di potere. Intervenendo nel dibattito anche Salon. com, ha dedicato un servizio speciale agli eccessi dei nuovi ricchi della startup economy. "L'impenetrabile 1 per cento" l'ha titolato. Descrive come vivono separatamente, come stanno spingendo le minoranze economiche e etniche ad abbandonare la regione e di come assorbono risorse e non pagano le tasse. E il servizio non stigmatizzava solo colossi come Apple, che già dall'epoca di Steve Jobs era maestra di paradisi fiscali, ma anche ditte più democratiche. Proprio come Twitter che, per rimanere a San Francisco, ha preteso che il Comune la esonerasse dal pagamento delle tasse.

Sollevando ulteriormente il tiro della polemica è poi intervenuto Newsweek ribattezzando la regione "Oligarch Valley" in un reportage che descrive i comportamenti eccessivi della nuova élite tecnologica e ne denuncia la ricchezza senza precedenti. Comportamenti bizzarri come quelli di Sean Parker, cofondatore di Napster, che s'era sposato nelle foreste di Sequoia a sud di Silicon Valley in un matrimonio da 4,5 milioni di dollari che pareva uscito dal Signore degli Anelli, non aiutano poi a dissipare l'impressione che i geek di Silicon Valley non sono meno avidi, vanitosi e appariscenti degli oligarchi russi. La possibilità che il modello di sviluppo startup stia arrivando al capolinea è un'ipotesi accreditata anche da osservatori ed attivisti politici indigeni come Chris Carlsson  "È difficile immaginare come possa continuare. Si creano pochi prodotti utili e la crescita è gonfiata dalla speculazione", afferma Carlsson, autore del best seller Nowtopia e uno dei fondatori del movimento Critical Mass, "Stiamo vivendo una trama già vissuta. È accaduto negli anni 80 e poi di nuovo con le dot com nel 2000. Adesso ci prepariamo allo scoppio della bolla delle startup e dell'economia delle app".

Tra i fondatori di Processed World, il primo periodico (adesso defunto) dedicato all'analisi delle società informatica, Carlsson è un esperto di bolle digitali, "A conti fatti il boom delle startup si sta trasformando in una massiccia crisi abitativa". Si costrusicono poche case, la regione è seconda come densità urbana solo a quella di New York, e gli affitti stanno raggiungendo le stelle. Un monolocale nella zona della Peninsula - la lingua di terra che va da San Francisco a San Jose abbracciando in pratica tutta la Silicon Valley - supera i 2000 dollari mensili mentre a San Francisco in alcune zone va oltre i 3000 e l'affitto medio regionale è arrivato a 3500 dollari. Secondo l'Economic Policy Institute, una think tank di Washington Dc, per vivere nella Greater Silicon Valley - la regione che va da San Jose a Sud, a Marin City a Nord e Oakland e Berkeley ad Est - una famiglia di 4 persone deve guadagnare 84.133 dollari l'anno.

Ma oltre all'intasamento delle freeway all'inurbamento accelerato degli spazi pubblici, e a sottoporre i servizi della regione ad una pressione che li mantiene costantemente al limite delle loro capacità, le legioni di startup e startuppisti che calano da tutto il mondo su Silicon Valley - quasi il 30% della forza lavoro della regione - creano anche posti di lavoro: 45mila del 2011 e 65mila erano previsti l’anno scorso (vedremo se raggiunti). La sola San Francisco in un anno ha registrato un incremento del 12 per cento dell'occupazione nel settore mentre dal 2006 al 2011 la crescita occupazionale complessiva è stata del 27,8%. Nel 2011, la crescita delle startup ha fruttato oltre 9 miliardi di investimenti da parte degli investitori.

"Il boom delle startup non crea solo squlibri ma anche opportunità e diversità", afferma Jonathan Weber, ex direttore di The Industry Standard, il mensile online che alla fine dei Novanta era diventato la bandiera di internet. "Le diseguaglianze economiche le si può affrontare con misure fiscali non condannando il modello startup".

Anche l'italiano Marco Marinucci, fondatore di Mind the Bridge Foundation, uno dei più attivi acceleratori di impresa di Silicon Valley, vede positivamente le dinamiche che stanno investendo la valle. "Il tempo dell'overdose da acceleratori che sta imperversando in altre parti del mondo a Silicon Valley è passato", dice Marinucci. "Non si spargono capitali a cascata ma ci si focalizza su progetti che hanno già una monetizzazione provabile e sono scalabili, mentre gli incubatori si stanno evolvendo in scuole vere e proprie con l'intento di preparare professionisti in aree specifiche".

La conferma che il modello startup si sta evolvendo arriva anche da Mohannad El-Khairy, responsabile internazionale di Plug and Play, uno dei più famosi incubatori di startup della regione. "Uno degli errori che le startup fanno più spesso è quello di lavorare troppo sul business plan e troppo poco sul prodotto, pensano che una volta trovati i capitali è fatta, e invece non capiscono che quello è il momento quando comincia il lavoro vero", dice El-Khairy, "La fase è cambiata bisogna progredire. Non basta più di creare un prodotto che vende, bisogna creare un prodotto che risponde anche ad un'esigenza sociale, il trend è oramai in direzione dello startuppismo socialmente responsabile. Il mantra dello startupper del futuro deve essere 'affronta un problema che assila l'umanità e risolvilo'".  

27 gennaio 2014

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